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Ci si rivolge ad uno psicoterapeuta, generalmente, perché c’è un sintomo, un disagio, una sofferenza quotidiana che rende la nostra vita insoddisfacente e noi insofferenti a tutto ciò.

Si arriva alla psicoterapia dopo diversi tentativi di risolvere da soli lo stato di inadeguatezza in cui si vive.

Il rapporto tra paziente e psicoterapeuta, che può andare dalla semplice consulenza psicologica fatta di pochi incontri, alla psicoterapia vera e propria, molto più facilmente di quanto si possa credere, può portare alla risoluzione del problema.

Problema che molto spesso trova la sua origine in cause molto diverse da quelle raccontate nell’incontro iniziale. Oggi soprattutto è opportuno comprendere che, come è naturale rivolgersi al proprio medico per problemi fisici, esiste un professionista, lo psicologo, altrettanto disponibile e a “portata di mano”, che può prendersi cura delle persone, aiutandole ad affrontare problemi di natura diversa da quelli organici.

Le aspettative con cui si arriva da uno psicologo sono innumerevoli, una in particolare, la più ricorrente: “probabilmente lei mi può dire perché mi sento così”. L’aspettativa di tutti è quella che lo Psicologo abbia una sorta di bacchetta magica, un sfera di vetro con cui trovare soluzioni.

Ciò che invece nessuno immagina è che la psicoterapia individuale è un lavoro duro, difficile, che mette in discussione la vita di ognuno di noi ma che si fa assolutamente in due: lo psicologo da solo non può nulla.

La psicoterapia individuale è un viaggio, per me il migliore che valga sempre la pena fare, perché è quello dentro se stessi, dove lo psicologo, come se avesse un lampada, conducesse per mano il proprio paziente in quella cantina dove probabilmente non si è mai entrati, a far ordine e pulizia; per poi eliminare ciò che non serve più e dare posto a cose nuove salubri e necessarie.

È quindi proprio nell’incontro tra psicologo e paziente, che diventa speciale per la sua natura profonda, che si fondano le radici di questa particolare “cura”.

Nel tempo, l’incontro iniziale si trasforma in un vero rapporto di fiducia e di stima in cui il paziente si può sentire accudito e protetto.

Da queste sensazioni può trarre la forza per affrontare al meglio le sue difficoltà.

La “cura”, quindi, può essere efficace solo se si instaura una vera relazione di fiducia, di stima, di profonda collaborazione e di sostegno tra psicoterapeuta e paziente/cliente.

Del metodo non direttivo, di Carl Rogers, da me adottato, dell’empatia (l’empatia è la capacità di leggere fra le righe, di captare le spie emozionali, di cogliere anche i segnali non verbali indicatori di uno stato d’animo e di intuire quale valore rivesta un evento per l’interlocutore, senza lasciarsi guidare dai propri schemi di attribuzione di significato) ne faccio la risorsa più importante per portare il paziente a modificare il suo comportamento, la percezione che ha del suo mondo, la capacità di “sentire” e di  “conoscere le sue emozioni, prima ancora dell’uso di tecniche o dell’interpretazione.

Prima di tutto deve esserci la comprensione dell’Altro e il riconoscimento della sua soggettività, senza naturalmente identificarsi.

È importante che noi psicoterapeuti siamo in grado di accettare e comprendere ogni aspetto del paziente, “positivo” e “negativo”, ogni suo sentimento, “buono” o “cattivo”.

Così all’empatia si unisce un’altra componente fondamentale del mio lavoro e della scuola umanista che ho sempre seguito: l’assenza di giudizio.

Questo mi permette di sentire il mondo dell’altro come se fosse il mio, senza però che ne scaturiscano inutili proiezioni, anche nei momenti in cui da questo mondo emergono emozioni negative o dolorose.

Anzi, il dolore arriva anche a me, ma questo fa parte di un rapporto in continua evoluzione, in cui il paziente si autodetermina ed il terapeuta si arricchisce e cresce nel suo percorso di autoeducazione.