Di che cosa si parla, oggi, sul lettino? Di crisi, lavoro, dipendenza dal computer. Cercando il modo di ridurre lo spread della frustrazione

di Laura Piccinini

Dice lo psicoanalista inglese Adam Phillips che oggi in analisi non ci si va più a conoscere se stessi. E allora? “Mi spiego – chiarisce al telefono dal suo studio a Londra – conoscere se stessi può essere utile, ma non deve restringerti la vita. La verità è che le persone vanno in analisi per smettere di essere troppo interessate a sé. Per aprirsi al mondo esterno, agli altri. Io credo che lo scopo della psicoanalisi sia rendere le persone libere di dimenticare un po’ se stesse. Perché sono cambiate due cose. 1. Le pressioni del capitalismo contemporaneo hanno reso molto difficile avere legami reali, l’idea stessa di cosa sia una relazione è stata sabotata. E l’analista è una continuità nelle loro vite dove spesso non ce ne sono più altre. 2. È sempre più facile sentirsi frustrati ma è sempre più difficile sapere perché lo siamo, cioè cosa ci manca davvero. E la psicoanalisi è fatta di conversazioni che puntano a farti scoprire qualcosa sulla natura delle tue frustrazioni in una cultura che ti promette di alleviarle inducendoti a consumare oggetti, sostanze, tutto pur di non provarle più. E riuscendoci sempre meno”. Potrà sembrare l’acqua calda freudiana, ma l’idea di fare delle frustrazioni “un’esperienza interessante, e non l’ultima sensazione che hai voglia di provare sulla terra, non è mai stata così utile”. In brutali parole moderne: la psicoanalisi nel 2012 dovrebbe ridurre lo spread tra le nostre frustrazioni e ciò che le genera, tra la vita che facciamo e quella che non faremo mai se – come per le economie nazionali, che infatti sono in crisi anche loro – non ci diamo una regolata, riscoprendo ciò che l’illusione indotta di essere speciali ci fa perdere. Pe questo Phillips, dopo averci detto quanto fossero rivoluzionarie normalità, gentilezza, equilibrio, ora ha scritto un elogio delle frustrazioni che si intitola Missing Out – In difesa della nostra vita non vissuta” (uscirà fra pochi mesi per Ponte alle Grazie). “Anche innamorarsi è scoprire una frustrazione che non sapevi di avere”: è il principio, da applicare a tutto. Tempo fa anche lo scrittore Hanif Kureishi ha ammesso che la psicoanalisi lo ha salvato: “In un mondo di neuroscienze e Tac che dicono tutto sui funzionamenti del cervello è facile liquidare la “talking cure” come reliquia del ventesimo secolo. Come se solo quel che è scientifico potesse migliorare il nostro stato mentale!”. È facile considerare gli psicoanalisti come macchiette: nell’ultimo romanzo di Giuseppe Culicchia Venere in metrò c’è n’è una, la dottoressa Kullmann, che non apre mai bocca se non per dire “sono 300 euro”, tanto la paziente va da lei come alla lezione di Pilates. Ma, per Phillips “è una buona cosa che l’analisi sia sbeffeggiata, fuorimoda e accerchiata da alternative meno costose e più veloci, così la faranno solo quelli che la trovano illuminante, difficile, che sono disperati o curiosi su se stessi. E non perché sia la cura migliore”. Ma di che cosa si parla nelle stanze degli psicoanalisti oggi? IL DIVANO, LA TUA VOCE Massimo Recalcati, psicoanalista lacaniano che probabilmente anche grazie all’andirivieni dei suoi pazienti ha analizzato l’Italia degli anni zero nei suoi saggi (da Cosa resta del padre ai Ritratti del desiderio) dice che “per un verso le parole possono sembrare le stesse, si parla sempre di amore, solitudine, ma sono anche diverse perché è sempre più opprimente il riferimento a oggetti di godimento che impongono nuove forme di schiavitù: la realtà virtuale, il cibo, la droga, lo psicofarmaco… Chi viene in analisi non parla più delle pene d’amore, ma di quelle legate a dipendenze da oggetti inumani”. Recalcati, che ha appena pubblicato Jacques Lacan (Cortina) tesse da tempo l’Elogio del fallimento (è anche un libro) come antidoto al principio della prestazione che angoscia, e l’analisi è l’unica stanza rimasta dove il fallimento è accettato. Eppure riconosce che gli ultimi anni sono stati tempi difficili per la psicoanalisi: “Appare inattuale. I tempi di cura sono lunghi mentre il nostro tempo è in uno stato di continua accelerazione. Il sintomo che fa male deve essere tolto per riabilitare il più rapidamente possibile la macchina del corpo o del pensiero. Senza considerare che i sintomi sono campanelli d’allarme, come diceva una mia paziente, che ci segnalano che la nostra vita non è sul binario della soddisfazione”. I tempi lunghi e il lettino: si usa ancora? “Io lo uso, perché permette al soggetto di ascoltare davvero quello che dice (lo facciamo molto raramente) e di parlare a qualcuno di invisibile che si astiene dal giudizio, dal potere che gli assegna la sua posizione, dal consigliare, dall’avere progetti per gli altri. Non è semplice trovare uno che non domanda altro che di ascoltare”. MALEIMIASCOLTA! Prima ancora delle parole, dice Massimo Cirri, che non è uno psicoanalista canonico ma pop (in quanto conduttore radiofonico) e popolare (lavora in un Centro per la salute mentale a Milano), la novità che legge nelle facce dei pazienti è “lo stupore per il semplice fatto di essere ascoltati,per tutti quei minuti, senza che suonino telefoni o ci siano computer accesi in sottofondo. Un miracolo. E questo non solo in seduta privata, ma in uno scalcinato servizio pubblico che ha fatto la scelta di ascoltare tutti, non solo le situazioni più gravi, previo codice fiscale e impegnativa del medico”. Cirri lavora anche con un gruppo di auto aiuto sulle sofferenze nel lavoro promosso dalla Cgil, dove sono “in aumento storie che si declinano nei campi della solitudine in ufficio. Alcune estreme: il mondo di colleghi e capi diventa sempre più minaccioso. Per una signora erano diventati una comunità di persecutori. E lei incattivita. S’nnescano spirali da cui è difficile uscire. Con la crisi, poi, se l’azienda stessa entra in sofferenza e si teme di essere licenziati il discorso si fa ancora più brutale. Si comincia a essere sospettosi, a temere di essere fatti fuori, le donne un po’ di più. I computer, poi, diventano ingigantitori della solitudine, persi nell’intranet”. SPENDING REVIEW Dice Vittorio Lingiardi, psicoanalista a Milano e docente alla Sapienza di Roma: “Ovviamente la parola che sento pronunciare più spesso è “lavoro”: trovarlo, mantenerlo, amarlo. Professionisti licenziati, giovani che vorrebbero fare carriera in un’università che ha ormai ridotto all’osso i dottorati, e di conseguenza un’altra parola inevitabile è “soldi”. Non solo come guadagnarli, ma anche che valore attribuirgli – per esempio soppesando il posto che l’analisi o la psicoterapia può occupare nella propria spending review. E poi, anche se non da ieri, parole ricorrenti sono “computer” e “telefono”, però declinate in chiave psichica e relazionale. Per citare Sherry Turkle, (una delle prime studiose di internet addiction) siamo tutti “soli insieme”. La vita online, la nostra cyber-identità spesso stravolge la vita coniugale. I pazienti mi raccontano di tradimenti rivelati da un sms arrivato in un momento sbagliato. Una magnifica vignetta di Altan mostra un signore da una maga. Lui le domanda: “Cosa mi riserva il futuro?”. E la maga, guardando la sfera: “Dice di inserire la password”. I computer contengono le memorie (lettere, foto), riorganizzano i nostri stati d’animo e abitano le nostre solitudini. Pensiamo al senso di perdita e al lavoro di lutto che ci attende quando si rompe o smarrisce il nostro partner informatico!”. Altro tema attuale, “essere genitore”: donne che si interrogano sull’autenticità del desiderio materno; lesbiche e gay che, vinta la battaglia contro la paura di pensarsi tali, riflettono sulle loro maternità e paternità”. IL PANICO DEI TRENTENNI Alex Pagliardini ha 35 anni e fa lo psicanalista in forma privata e no, a Roma-Prati e poi alla onlus Jonas (fondata da Recalcati). Parecchi suoi pazienti hanno la sua età. “Una volta la psicanalisi era una pratica autoreferenziale, ora è stata sdoganata dall’essere considerata un vizio borghese o un privilegio. Se si hanno vent’anni o trenta e un non-lavoro bastano venti euro a seduta. E si tende a fare dell’analista un simile, a dargli del tu. Ma
il vero tratto comune nelle parole dei suoi circa – trentacinquenni è “la sofferenza diffusa, il “mi tolga quest’inquietudine” che non sanno bene da dove arrivi. Prima era più localizzata: sapevano che partiva dalla vita amorosa o sessuale. Mentre ora, semplicemente non sanno più che fare nella vita, hanno perso la bussola, sono in confusione. E un sintomo frequente sono gli attacchi di panico (ci ha scritto un libriccino, L’esperienza del panico, scaricabile online, jonasonlus.it). Anche quando si scopre che c’è dietro una problematica classica, sessuale, l’attacco di panico è una risposta più moderna a quella che una volta era, per esempio, l’impotenza. Oppure c’è la dipendenza da videogame: come quel paziente lasciato dalla fidanzata che ha trovato una frequentazione parallela, fino ad arrivare a ridurre i passaggi rituali del gioco di ruolo ai soli dieci secondi della pratica sessuale prevista”. SENTIRSI SOTTO “Sono sotto”, l’espressione è così usata che c’è anche il brano di una band italiana che si intitola così (gli Unders, ovvio). Racconta Giuseppe Pellizzari che è il presidente del Centro Milanese di Psicanalisi Cesare Musatti (incontrato al lancio di un servizio per adolescenti e adulti in difficoltà in tempo di crisi economici, con Marina Baj Rossi), che non ha mai sentito tante persone dai 17 anni ai 40 usare come ora la frase: “Come se in un’ipotetica chart, che è il criterio di valutazione della vita, loro fossero agli ultimi posti. Sentirsi “sfigati” è la paura più diffusa da quando si è passati dalla prevalenza della colpa alla quella della vergogna, del fallimento. Al posto dell’isteria, che era la reazione alle strutture autoritarie, ora cè il narcisismo. L’unico bisogno è essere riconosciuti da un pubblico anche anonimo come quello di Facebook. La paura è di di perdere la Face, l’immagine di sé cui tutti possono accedere e che è la propria identità. Ed è fortissima una nuova rabbia che è il rovescio di una grande fragilità emotiva e si manifesta in forme di violenza casuali: spaccano oggetti, rompono se stessi con forme di autodistruttività, alcolismo”. All’idea di aver successo, comunque, non si rinuncia: “Non hanno desideri forti, ma sono pieni di velleità. Un ragazzo, per esempio: “Mia madre dice che non amo lo studio, ma se sono stato nei migliori licei di Milano!”, e quando gli chiedo cosa vorrebbe studiare: “Mi piacerebbe andare a Harvard!””. L’estate scorsa lo scrittore Hari Kunzru ha officiato così l’ennesimo funerale alla psicanalisi tra intellettuali newyorkesi per presentare il libro del giovane psicoanalista americano Jamieson Webster, Life and Death of Psychoanalysis: “Addio analisi. Niente più sedute la prossima settimana. Eri venuta in America a darci orgasmo libero perché le pulsioni sessuali non potevano essere represse senza conseguenze. Poi abbiamo avuto l’Aids e politici come Rick Santorum, e il senso di colpa è tornato di moda. Eppure, mentre ti seppelliamo, abbiamo nostalgia del nostro subconscio. Della privacy che implicava. Ora siamo tutti su Facebook, sotto sorveglianza costante, abbiamo videocamere in ogni orifizio. Psicoanalisi, ci manchi”.

Articolo originariamente pubblicato su d.repubblica.it